Quelli che
eravamo

Un muro tra Italia e Germania

Non fu un periodo semplice; nonostante una maggiore esperienza delle istituzioni italiane rispetto ad accordi precedenti, come quello del ’46 con il Belgio, e una buona organizzazione dal lato tedesco, all’inizio non ci furono tentativi di integrazione da nessuna delle due parti.

Nella foto: lo stabilimento abbandonato della fabbrica Grossman, vicino Solingen, che ospitò molti italiani della grande ondata di immigrazione degli anni ’60.

Gastarbeiter

Gli italiani sarebbero stati solamente gastarbeiter, lavoratori ospiti e quindi temporanei, pronti a tornare in Italia secondo un principio di rotazione che era alla base della grande ondata migratoria di quei tempi, a cui si aggiunsero dopo greci, spagnoli, portoghesi e, soprattutto, turchi.

Nel video: il racconto di alcuni gastarbeiter, dai diari dell’Archivio Diaristico Nazionale.

8 settembre ‘43

Gli italiani dovevano poi combattere con stereotipi ancora forti, dovuti spesso agli eventi della seconda guerra mondiale e all’8 settembre: erano traditori, Badoglio, Itaka (dispregiativo per camerata italiano). Lorenzo Annese, primo italiano ad entrare alla Volkswagen di Wolfsburg nei primi anni ’60, fu anche uno dei primi a sposarsi con una ragazza tedesca; dovette tenere un fischietto da marina vicino al telefono per assordare i tedeschi che frequentemente chiamavano la moglie per insultarla in quanto “traditrice” del proprio popolo.

Nella foto: Lorenzo Annese con alcuni contadini tedeschi, con i quali lavorava prima di entrare alla Volkswagen.

Lavori Forzati

La seconda guerra mondiale fu, in effetti, un periodo complesso tanto per le relazioni tra Italia e Germania, che per la stessa comunità italiana nel paese. Il Reich chiese all’Italia centinaia di migliaia di fremdarbeiter, lavoratori “liberi”, per sostenere il riarmo del paese in cambio delle materie prime che il governo fascista richiedeva. Al protrarsi della guerra solo poche migliaia riuscirono a tornare, mentre gli altri diventarono zwangsarbeiter, lavoratori coatti.

Nella foto: internati italiani, russi e di altre nazionalità al Nazi Forced Labour Documentation Centre di Berlino, costruito nel campo che ospitò centinaia di soldati ai lavori forzati durante la seconda guerra mondiale.

Dal fronte senza ritorno

Agli zwangsarbeiter civili si aggiunsero, dopo l’8 settembre ’43, oltre 300mila soldati prigionieri, che avevano rifiutato di unirsi alla Repubblica Sociale Italiana, e che erano stati imprigionati per far fronte alla domanda dell’industria bellica tedesca, che neppure i prigionieri russi e i ex lavoratori liberi italiani (quasi mezzo milione) non riuscivano a sostenere.

Nella foto: il panificio del campo di concentramento di Sachsenhausen, il campo di concentramento dove molti dei 300mila soldati italiani imprigionati dopo l’armistizio vennero portati. Il panificio riforniva anche altri campi di concentramento e impiegava per la maggior parte prigionieri italiani.

Non più soldati, non più uomini

Considerati traditori, vennero così esclusi dalla protezione offerta dalla Convenzione di Ginevra, e mandati ai lavori forzati e nei campi di concentramento, come a Sachsenhausen. 40mila morirono per l’inedia, la fatica e le violenze subite.

Nel video: testimonianze di soldati italiani prigionieri in Germania, dai diari dell’Archivio Diaristico Nazionale.

Le fondamenta dell’Europa

Gli operai che arrivarono per primi in Germania dopo la guerra dovettero così ricostruire l’ormai scomparsa comunità italiana, ma anche la Germania stessa, ridotta in macerie dalla guerra e dai bombardamenti alleati. Misero, in un senso spesso letterale, le fondamenta della Repubblica Federale e dell’Europa stessa, come nel caso di Alessandro della Rocca. Operaio per trent’anni, ha visto poche volte il sole, passando dodici, tredici ore a lavorare sottoterra per costruire la rete intricata di tunnel per la metro di Francoforte, o quelli sottomarini del porto di Amburgo.

Nella foto: un ritratto di Antonio della Rocca nei pressi della sua abitazione, di fronte alla Banca Centrale Europea.

Il mito del ritorno

Il duro lavoro, il meteo e il cibo differenti, la lontananza dalle famiglie e la natura stessa del ruolo del gastarbaiter contribuirono a creare il famoso mito del ritorno: l’idea che le centinaia di migliaia di italiani che arrivavano in Germania dovessero rimanere là solo per qualche anno, per poi infine ritornare. Quasi ossessionati da questo ritorno in patria, molti dedicarono tempo e soldi per prepararlo, per poi rimanere in Germania, dove trovavano condizioni economiche nettamente superiori a quelle italiane. Un problema che limitò fortemente l’integrazione tanto delle prime, quanto delle seconde generazioni, che più spesso studiavano l’italiano del tedesco.

Nella foto: foto di famiglia da poco prima e subito dopo l’emigrazione di Antonio Della Rocca.

Le luci del circo

Non tutti arrivavano come operai; Francesco Polidori fu portato in Germania dal circo. Falegname di un paese di Avellino, fu convinto dal cognato ad unirsi al circo Krone, per cui dipingeva e montava le insegne, issava il tendone, lavorava anche come maschera. La racconta ancora come una bella vita, anche se particolare, tra le liti con gli artisti e il continuo girovagare. Abbandonò le luci del circo per le fornaci della Ruhr quando decise infine di avere una famiglia. Nella foto: Francesco Polidori e altri lavoratori italiani al Circo Krone.

Nella foto: Francesco Polidori e altri lavoratori italiani al Circo Krone.

Ferro Fuso

Fu un cambiamento significativo; si lanciava nel mondo che apparteneva alle altre migliaia di italiani che in quel momento arrivavano nel metalmeccanico della Ruhr, ma che nulla aveva in comune con la meraviglia del circo. Era duro lavoro, ore e ore di fronte al ferro fuso, in una cittadina oscurata dalle ciminiere dall’aria così densa che, nei giorni peggiori, era impossibile andare in giro in camicia bianca.

Nella foto: Francesco Polidori presso un’acciaieria della Ruhr, ormai chiusa da anni.

Crescere in Germania

Fu una scelta che, però, alla fine ricompensò Polidori, grazie anche all’impegno della moglie. A differenza della maggior parte degli italiani la sua intenzione era quella di far studiare i propri figli in Germania, perché si integrassero nella comunità locale. Per questo la moglie lavorò notte e giorno nella lavanderia di un’azienda mineraria sui capi intrisi di carbone, per riuscire infine a mandare i figli al liceo e all’università – un evento infrequente per la seconda generazione della comunità operaia italiana degli anni ’60, con livelli di istruzione ancora inferiori alla media tedesca.

Nella foto: album di famiglia della famiglia Polidori.

Una Piccola Italia

Gli stessi alloggi erano parte del problema dell’integrazione; all’inizio si trattava sia di prefabbricati costruiti rapidamente dalle aziende per far fronte alla carenza di alloggi che colpiva anche la popolazione tedesca, ma erano più spesso ex baracche per prigionieri di guerra della seconda guerra mondiale. Lontani dalla città ed affollati, mancavano spesso di elettrodomestici; le case degli italiani si riconoscevano di frequente dalle buste fuori dalle finestre, che contenevano il cibo da conservare al freddo in mancanza di frigoriferi. La situazione impediva agli immigrati italiani di portare con sé le proprie famiglie, accentuando la necessità del ritorno da parte di questi.

Nella foto: baracche per i lavoratori italiani vicino Stoccarda, alla fine degli anni ’50.

Quasi tedeschi

Negli anni ’60 la situazione cambiò, ma il problema dell’integrazione rimase; alle baracche si sostituirono condomini spesso dotati di comfort e con aree comuni, ristoranti, supermercati, addirittura piccoli cinema. Recintate ed autosufficienti, queste sistemazioni continuavano a tenere la popolazione italiana lontana dalla quella tedesca, rendendo difficile l’apprendimento della lingua e l’integrazione.

Nella foto: Kästorf, il quartiere italiano costruito negli anni ’60 a Wolfsburg per gli operai della fabbrica Volkswagen.

Tutti a casa

Negli anni ’70 la crisi petrolifera mise fine all’immigrazione italiana di massa. Pur non colpiti dall'Anwerbestopp, lo stop agli ingaggi di lavoratori stranieri in Germania (limitato a quelli extracomunitari), la presenza italiana diminuì costantemente per la minore domanda tedesca e la maggiore solidità dell’economia italiana, andando sotto il mezzo milione di unità. Una presenza che però sta tornando ad aumentare, anche nel settore dell’industria.

Nella foto: un villaggio di minatori abbandonato dopo la chiusura dell’ultima miniera di carbone, tra Duisburg e la Ruhr.

Una piccola grande storia italiana

Wolfsburg, in tutto questo, è stata la città che più ha rappresentato il paradigma dell’emigrazione di massa degli italiani in Germania: costruita proprio da lavoratori italiani per volontà di Hitler negli anni ’30, fu popolata dai gastarbeiter italiani a partire dagli anni ’60. La rappresentanza sindacale sempre più forte, la crescente unione della comunità italiana con quella tedesca ne fecero un esempio di integrazione a livello europeo, che continua tuttora.

Nella foto: la piazza davanti alla stazione di Wolfsburg, con la fabbrica Volkswagen sullo sfondo.

Famiglie lacerate

Wolfsburg racconta così tante storie di italiani in Germania, alcune che si sono rivelate positive, come quella di Lorenzo Annese, primo operaio italiano alla Volskwagen ma anche primo straniero nel consiglio di fabbrica, altre più complesse, come quella di Luigi Cavallo. Arrivò in Germania non per propria volontà, ma per seguire il padre dopo la morte della madre, che lui aveva in realtà abbandonato insieme ai figli pochi anni dopo il trasferimento in Germania.

Nella foto: Luigi Cavallo di fronte alle foto d’epoca esposte nell’area del primo villaggio italiano a Wolfsburg.

Costruire la nuova generazione

Nonostante il difficile inizio, Cavallo fu conquistato dal paese; cercò di ritagliarsi i propri spazio nella comunità locale, imparando il tedesco e inserendosi come molti italiani non riuscivano o non volevano fare, incluso suo padre. Quando questi decise infine di tornare, lui invece rimase, per essere parte e difendere i diritti, come quello al voto, di una comunità italiana sempre più solida a Wolfsburg.

Nel video: la storia di Lorenzo Annese e di Luigi Cavallo.

Catena di montaggio

La Volkswagen, Wolfsburg e la Germania rappresentano ancora una forte attrazione per gli italiani. Retribuzioni più alte e la promessa di una maggiore stabilità portano di nuovo italiani in Germania, con un aumento considerevole che è destinato sia al settore dei servizi, nelle città come Berlino o Francoforte, ma anche all’industria tedesca.

Nella foto: catena di montaggio dentro la fabbrica Volkswagen a Wolfsburg.

I nuovi gastarbeiter

Nasce così una nuova generazione di gastarbeiter, simile e allo stesso tempo differente rispetto a quella del passato; il mito del ritorno appare più chiaramente come un’illusione, per giovani che meno sperano di poter tornare in Italia e trovare un quadro migliore di quello che hanno lasciato. Viene però forse sostituito dalla facilità sempre maggiore di viaggiare. Trasformandoli così da lavoratori pronti a tornare, come erano i loro padri, a lavoratori in transito.

Nella foto: due giovani operai italiani della Volkswagen di Wolfsburg.

Un Progetto di
Lorenzo Colantoni & Riccardo Venturi



Con il sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale - Direzione Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie.
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